Testi Critici

Elisa Polidori – “In Luce”

Renata Maccaro nasce a Roma e nella capitale acquisisce una solida formazione culturale decisiva per i successivi orientamenti e scelte in ambito creativo. Di estrazione classica, ma aperta alle istanze del contemporaneo, laureata in Lettere moderne con il massimo dei voti, avvia da autodidatta il suo percorso artistico con una ricerca sull’astratto. E’ con l’opera intitolata “Sera” che nel ’94 è tra i vincitori del “Premio Arte Giorgio Mondadori”. Negli anni successivi la sua indagine si incentra sulla figurazione; tale passaggio implica una pluralità di linguaggio e una comprensione della filosofia complessiva delle Ricerche assolutamente notevole.

Va sempre considerato che nella pittura, come in altre espressioni d’arte, la ricerca e le conoscenze restano l’aspetto fondamentale per l’innovazione e la definizione delle espressioni contemporanee. In questo percorso di ricerca indubbiamente si inserisce l’esperienza artistica e personale della Maccaro che intitola questa esposizione “Percorsi: dall’Astratto alla Figurazione”, con una logica e raffinata selezione di opere datando solo uno dei primi lavori astratti – 1994 – e l’ultimo dei figurativi – 2015.

L’elemento fondante del lavoro di questa artista è l’accordo e la fusione tra elementi della percezione sensoriale ed elementi spirituali; negli astratti la materia è elaborata fino alla levigatezza; nella produzione successiva la ricerca si conferma decisamente introspettiva: il veicolo è una materia fortemente frammentata e incisa che solo apparentemente costituisce un terreno disorganico e destrutturato. Per la cultura orientale l’arte ha una funzione analogica, capace di accordare elementi diametralmente opposti solo apparentemente inconciliabili, come per Ives Klein, ricordato come il pittore dell’immateriale, che parlando delle sue opere le definiva “le ceneri della mia arte”. Ecco che in questa esigenza di destrutturazione rivedo il percorso artistico e spirituale di Renata.

Complesso e forse riduttivo inserirla in un contesto artistico riconoscibile ai più; ella può essere più correttamente definita un ricercatore “in movimento”, poiché dietro ad ogni pennellata, ad ogni assaggio cromatico ci racconta un nuovo cammino, un processo evolutivo.

Di proposito non cito l’onirico o il sogno, perché non credo sia questo il centro della sua ricerca, dunque non l’astrazione della percezione, bensì la consapevolezza di sè, la coscienza dell’io: non è sogno quello che traspare dalle opere di Renata, ma è trascendente realtà; la pittrice espone i suoi lavori a Gubbio, terra ricca di spiritualità, di storia e di profonde alchimie; la mostra in tale contesto riveste quindi un significato particolarmente coincidente.

Ho già trattato artisti che hanno deciso di intraprendere una ricerca sull’arte alchemica, complesso viaggio verso la Conoscenza attraverso la ricerca di una sintesi spirituale, il percorso dell’alchimista appunto, che passa attraverso gli opposti dell’esperienza, dal nero della Nigredo al rosso della Rubedo, dall’oscurità alla luce, seguendo un percorso di profonda trasformazione non solo della materia artistica, ma anche di sè: nella grande tela dal titolo “Celestiale ferita”, tratto da una poesia di Emily Dickinson, la pennellata danza dalle cromie del blu ai toni caldi in una concitata sequenza di linee che svela quanto ogni passaggio cromatico indichi una metamorfosi; alla luce che splende nel dipinto intitolato “Helios” si affianca il “Puer Aeternus”, dall’omonimo saggio di James Hillman, allievo di Jung, che così recita: “La figura del puer aeternus è la visione della nostra natura prima, la nostra primordiale Ombra d’oro, la nostra affinità con la bellezza, la nostra essenza angelica come messaggera del divino….”; è dunque alla luce del mito che l’artista nutre la ricerca attuale e individua la propria interezza in un lavoro di forte tensione emotiva: il risultato è un accordo di luce, colore, materia, una materia frammentata ed elaborata al limite, elemento generatore di energia visiva.

Ma è dalla frammentazione dell’interezza, dalle discromie, dai resti, che nasce la Fenice di Renata, straordinaria testimone della spiritualità contemporanea che l’arte ricerca.

Gubbio, settembre 2015

Francesca Pietracci – “Nigredo”

L’incontro con l’arte di Renata Maccaro offre la possibilità di inoltrarsi in argomenti specifici che spaziano dall’estetica alla filosofia, dalla psicanalisi alla letteratura.

Ma soprattutto costituisce l’opportunità di far emergere quel mondo del silenzio che, seppure per lo più avulso dalle attuali esperienze e linguaggi dell’arte contemporanea, costituisce un substrato comunque presente nella civiltà occidentale.

Si tratta, in altri termini, di affrontare il discorso della perdita di identità, e del suo corrispettivo tentativo di recupero, in un mondo che sta mettendo in discussione se stesso e i suoi sistemi e che sta vivendo il suo inesorabile declino.

Infatti, se da un lato ci affascina praticare questa esperienza di azzeramento, dall’altra ci angoscia vivere un’inevitabile elaborazione del lutto, una significativa Krisis.

Renata Maccaro si inoltra nel territorio del subconscio elaborando un linguaggio pittorico simbolico sui generis. Se infatti il Simbolismo era nato alla fine del 1800 come contraltare dell’Impressionismo e dell’Espressionismo, lei recupera e inserisce in esso anche il tratto materico e deformante per raccontare una figura umana simbolo della ricerca interiore e dell’esperienza alchemica in senso junghiano.

Oscillando tra Moréas e Bergson, concepisce l’arte come espressione concreta e analogica dell’Idea, momento d’incontro e di fusione tra elementi della percezione sensoriale ed elementi spirituali. Si tratta di un recupero di concezioni arcaiche intese come sintesi tra visibile e invisibile, spirito e sensi, sogno e vita, allegoria e mito, etica, religione ed esoterismo.

Il suo viaggio all’interno dei sotterranei dell’anima (Aldo Carotenuto), si traduce nella luce di un sole sotterraneo, di una luce che diventa nera e irradia un corpo di carne splendente (radieuse) e di carne oscura (sombre).

Parliamo della nigredo (o opera al nero) all’origine uno dei tre stadi fondamentali dell’opus alchemicum per ottenere la pietra filosofale, in cui la materia si dissolve putrefacendosi, ma soprattutto elemento simbolico significativo recuperato da Carl Gustav Jung.

Ed è proprio da Jung che l’artista riprende il simbolismo alchemico, inteso come energia e ricerca spirituale per esemplificare i processi legati alla sfera dell’inconscio, dell’immaginazione e del sogno.

E’ attraverso la pittura che lei raggiunge la consapevolezza della propria individualità e la scoperta del suo essere interiore, che acquista libertà e autonomia. Vicina anche al concetto di nigredo espresso da Bataille, evidenzia una parte del simbolismo alchemico maggiormente libertaria che sfocia in una soggettività plurale, lacerata, dionisiaca. Contrapponendosi anche lei ai sistemi chiusi e alla gerarchia dei simboli, gioca con le immagini a volte in modo ironico e a volte drammatico, parlando di emozioni, percezioni, sensazioni e soprattutto evidenziando il tessuto relazionale con l’altro.

Allargando il discorso, per lei l’alchimia è intesa anche come proiezione nel mondo materiale degli archetipi dell’inconscio collettivo e il procedimento per ottenere la pietra filosofale, rappresentando ancora una volta l’itinerario psichico che conduce alla coscienza di sé ed alla liberazione dell’io.

E questo è anche l’elemento irrazionale e misterioso che lei introduce in ogni sua opera e che è volto a rappresentare il suo percorso interiore rendendolo paradigmatico.

La sua è una “pittura a memoria” che, grazie a questo, assume lo spessore di un racconto.

La conoscenza personale della vita, riducendo la complessità, prende di solito forma di racconto, ed è così che viene elaborata e comunicata. “Il mondo è una totalità di fatti”, scriveva Wittgenstein, e anche se risulta inspiegabile come questa conoscenza personale possa essere generalizzata, di fatto i racconti sono comprensibili, suscitano empatia e spesso dominano la comunicazione. Sono una forma grazie alla quale un’esperienza complessa diventa comunicabile.

Renata Maccaro presenta la sua opera come un racconto magico nelle cui fasi di elaborazione decostruisce e reinventa se stessa, nelle sembianze di un giovane uomo.

Anche questo, del resto, costituisce un’alchimia, tra buio e luce, fusione e confusione, gioco, riposizionamento di simboli e recupero delle energie rigenerative della notte.

Così come, in tono differente, ma contiguo, anche i quaderni di Joe Bousquet parlano di una misteriosa oscurità scintillante. Nella sua condizione di viaggiatore immobile nel suo letto-vascello, Bousquet indaga la notte della notte (C’è una notte nella notte … Vi sono pensieri che pensiamo; ma anche pensieri che ci pensano …) e viaggia in questo luogo primordiale, nel magma creatore di ogni cosa. È lo sguardo stesso a trasformarsi in senso alchemico per poter afferrare quell’Oltre-nero, ricongiungersi con le viscere del mondo ,avvicinarsi all’unità, percepire una diffusa sacralità. Stessa sacralità presente nelle parole della lettera scritta da Simone Weil proprio a Bousquet nel 1942, un anno prima di morire” (…). La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento? ». E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui.(…)”.

Sacralità, e aspirazione all’assoluto, che anche Renata Maccaro ricerca e comunque trasmette attraverso le sue opere e che fondamentalmente corrisponde a ciò che costituiva la base dell’indagine sulla fenomenologia del sacro (rito – mito – simbolo) dello stesso Mircea Eliade: “ l’essenziale della mia ricerca riguarda l’immagine che l’uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel cosmo”.

Roma, settembre 2011

Giuseppe Selvaggi – “Renata Maccaro: Il doppio verso la totalità della pittura”

Si guardi – sapendo che la pittura è anche ma non tutta arte dello sguardo – il visitatore di un quadro (e già parliamo di ciò e come dipinge Renata Maccaro) dal fermarsi ai sensi e significati esterni. Specie se con insistenza e volontà l’artista insegue lo spettatore e lo blocca sulla esteriorità del quadro, ma nell’intimo della vocazione sperando che gli occhi dello spettatore violino le apparenze, arrivando ad una penetrazione reciproca. L’immagine diventa lo strumento per fare dell’arte una sorta di religiosità, superando il pur bellissimo muro dell’estetica: ossia i ritmi esterni del quadro stesso.

L’opera, nel suo ciclo o in più cicli. Si parla ancora della pittura di Renata Maccaro: quello che si narra è un susseguirsi di nascondigli nella magica eppure dolorosa tentazione di scoprire, nel labirinto, il filo di uscita verso la verità.

Ma non c’è uscita. Ben lo sapeva Leonardo nel dipingere la Vergine delle rocce, dove tutto è spiegato, ed invece tutto è negato, dietro le siepi infinite delle possibilità di spiegazione. Renata Maccaro questo ben lo sa e ci offre, in chiave di conoscenza esatta persino geografica, una rappresentazione medianica di una umanità tesa e sperduta nel “divino”. La pittrice però anche sa che il “divino” non ha una sede esatta, non ha interpreti diretti, e che l’uomo è l’uomo. Eppure l’artista narra il suo gioioso patimento nascondendosi in immagini. Queste, ed è un suo dono d’artista, hanno una loro capacità narrante, gridata anche nel silenzio delle maschere, per cui il quadro resta non inerte, ma penetrante nello spettatore. Se questi riesce a portarsi sull’onda dell’artista, e sfondare l’immagine del quadro, c’è una letizia avviata alla completezza.

In termini più elementari, questa pittrice di cultura macerata nei dubbi della ricerca, com’è la cultura con radici, o almeno viva di religiosità, tenta un’operazione artistica nella sua semplicità: dare alle immagini il senso operativo del pensiero continuo. Fuori dalle regole della staticità l’immagine viene offerta come pretesto, pur affascinante, per giocare e patire, inseguendo un gomitolo di idee, di sovrapposizioni, di cadute, di entusiasmi scroscianti, fino, purtroppo alla resa. Provate a pensare a ciò che potrebbe accaderci restando fissati e incantati sempre sul paesaggio della Vergine delle Rocce: conseguenza, la follia o il possesso della gioia.

Il riferimento leonardesco non è un preziosismo culturale. È invece una dichiarazione di fatto per affermare la qualità di intuizione che provoca renata Maccaro a darci questa pittura di apparenti terre lontane, siano volti, colori, linee, rievocazioni. L’artista ha il dono della dualità, senza cui l’arte figurativa è soltanto figurazione, magari di alte accademie e geometria, però manca del germe pregnante per cui l’arte mira – e a volte miracolosamente arriva – al potere dell’emozione non spiegabile.

Renata Maccaro appartiene ai fortunati, anche se di più hanno da soffrire in alcune occasioni, artisti che hanno il dono del Doppio. In lei la lotta tra ciò che pacificamente diletta e il rincorrere se stessa verso sempre imprevedibili nascondigli è felice disperazione, questa intesa come aspirazione a superare il naufragio della vita verso certezze, forse impossibili, e che pure esistono. Il Doppio, in quanto artista, come possibilità di dare alla propria opera polivalenza di segni, che sono matrice di significati a catena, ed adattabili ad ogni visitatore del quadro. L’arte come terapia della serenità, quindi l’arte come preghiera? Forse.

Dalla mostra si può anche uscire freschi e soltanto avvolti dalle coloriture, che i colori della Maccaro innalzano a frecce di violenza carezzevole, ad aurore notturne. Si può uscire cioè soltanto dilettati, ed è un modo di assorbire la pittura. Si può anche ricevere una carica di calore, e colori, di maternità. Il segno della pancia materna è uno dei segreti sottofondi delle geometrie di questi quadri. Ma l’augurio più caro è di uscirne con una immersione totale: sconcertati, eppure convinti di avere ascoltato una sinfonia colorata, disegnata che vi apparirà semplice però avvertendo che in voi qualcosa è stato rimosso, di voi. È il mistero sacro dell’arte, pauroso eppure estremamente godibile.

In conclusione: uscendo dalla mostra siete usciti dalla stretta di un poeta. Nell’abbraccio tra voi e il quadro qualcosa vi ha arricchiti tramite immagini e colori. È tanto.

Giuseppe Selvaggi – “Renata Maccaro: the double towards the entirety of the painting”

Counscious that painting is also but not only art of look, the visitor to a picture (and we are already talking about what and how Renata Maccaro paints) should evoid to stop his mind to senses and outward meanings. Especially if the artist willingly and insistently follows and blocks the visitor to let him consider just the exteriority of the painting, while he hopes, like artist, to bring the visitor’s eyes to violate the appearence, reaching a mutual insight. The picture becomes, therefore, the means through which we make the art a sort of religiousness, going beyond the wall of aesthetics, however wonderful it is: that is the outward rhythm of the picture itself.

We are still talking about Renata Maccaro’s painting: what is actually here told are hiding places following one another trying to find, magically and yet with pain, the thread bringing to thruth. But there is no result. Leonardo was conscious of that, since the time when he painted La Vergine delle Rocce, where all seems explained while everything is denied, behind the endless hedge of possibilities of meaning. Renata Maccaro knows that as well. From a viewpoint of an exact and even geographical knowledge, in a mediumistic way, she represents the mankind aiming at the “Divinity” and getting lost in it. The painter also knows well, the “Divinity” has no precise seat, it has no direct interpreters. She knows that the man is man. Yet the artist tells her joyful suffering while she hides herself behind the pictures. On the other hand these pictures – that’s the talent of the artist – are able to tell us something. Their ability narrator breaks the silence of the masks and the work does not remain inert, it penetrates the visitor, instead. So that if the visitor can get on the same wavelenght as the artist and goes beyond the images of the picture, he is destined to feel a full joy.

This painter, coming from Macerata and showing her doubt about the research – and that’s quite typical in a culture with root or which has at least a deep religiousness – acts artistically in a simple way: she gives the pictures the operating sense of the continuous thought. Out of the rules of immobility, the picture is just an excuse, yet fascinating, for playing and suffering, while we follow a tangle of ideas, overlappings, falls, roaring enthusiasms till – unfortunately – the surrender. Let’s try to think what it could happen to us if we remained dazed and stunned, staring the landscape of La Vergine delle Rocce: the consequence can be madness or full joy. The reference to Leonardo is not a cultural preciocity at all. It is instead a way to underline how good is the intuition of Renata Maccaro. She gives us a picture of seeming distant lands, that can be faces, colours, lines or evokings. The artist has the gift for the dualism, without which pictorial art is just figuration of yet important academies and geometry, but it laks the pregnant germ that lets art aim and sometimes reach, by a miracle, the power of the inexplicable emotion.

Renata Maccaro is one of those artists who, having the gift for the Double, are lucky and yet destined to suffer more sometimes. In her the fight between what she likes and the running after herself towards unforeseeable hiding-places is like happy despair, that is the aspiration to get over the failure of life in order to reach, maybe, impossible certainties, which yet exist. The Double is the artist, is the possibility to give the own work multiple signs, which will create endless meanings and can be fit on every visitor. Therefore art as serenity therapy, art as prayer? Maybe.

Nevertheless we can leave the exhibition fresh, just struck by those tones that Maccaro’s colours raise to violent but tender arrows, to nocturnal dawns. That is we can leave the exhibition just delighted and that’s a way to absorb painting. We can also be encouraged by warmth and colours of motherhood. The sign of the mother belly is actually the secret Leitmotiv of the geometries of these pictures. However I wish you to leave the exhibition completely involved: bewildered but convinced that you have listened a coloured, drawn sinphony that yet will seem to you simple because you realize something in yourselves is changed. That’s the sacre mistery of art, that’s frightening and very enjoyable in the same time.

To conclude: when you leave the exhibition the poet’s hold leaves you. In the meeting between you and the picture something has enriched you through images and colours. That’s so much.

Andrea Romoli Barberini – “Le ricognizioni introspettive di Renata Maccaro”

“Prima di iniziare un quadro, la cosa che più mi preme è trovare il modo di rendere al meglio quanto ho concepito mentalmente come soggetto dell’opera”. Con questa riflessione solo apparentemente ovvia, non molto tempo fa Renata Maccaro poneva in evidenza i rapporti intercorrenti tra testo pittorico e significato dell’opera.

Riproponeva cioè il problema della ricerca votata alla creazione di un codice finalizzato all’espressione di un messaggio. Ora, senza cercare di circoscrivere con improbabili definizioni ciò che è arte e ciò che è altro, credo si possa affermare che tanto più una forma è in grado di rappresentare con efficacia il proprio contenuto, mantenendosi lontana dalle secche del messaggio didascalico, tanto più essa sarà leggibile e assolverà alla propria finalità che rimane quella di comunicare e alimentare la riflessione. Se poi le forme rappresentate , oltre ad essere significanti, si manifestano come nuove e originali, allora il manufatto godrà di un ulteriore merito, perché nelle arti “il nuovo”, ciò che non appartiene ad una consolidata esperienza fruitiva, da sempre spiazza e stimola le facoltà ermeneutiche dell’osservatore, mostrandosi e celandosi nel contempo attraverso codici inediti. Ed è proprio in questa porzione di significato non immediatamente decifrabile, nell’evocazione indefinta e incognita suscitata da ciò che nell’opera si manifesta e si vede senza tuttavia appartenere all’esperienza del già visto, che risiede uno degli elementi indispensabili, forse il più prezioso, in grado di affrancare il manufatto artistico dell’univocità interpretativa e concedere ad esso uno sconfinato ventaglio di letture possibili. Ogni artista sa che il proprio lavoro è generato dalla necessità di esprimersi e dall’urgenza di cose da esprimere. In seguito a queste due esigenze, l’artista è colui che si forgia un linguaggio, cioè una soggettiva forma d’unione tra necessità di esprimere e cose da esprimere, un suo personale rapporto tra forma e contenuto, tra significante e significato. È dal linguaggio, quindi, che si vede la reale forza dell’artista: necessità espressiva, o sentimento, da soli non possono bastare.

Nel caso di Renata Maccaro, l’approccio con la pittura nasce da un’esigenza riflessiva e autoconoscitiva che ha assunto il valore dell’appunto diaristico trasfigurato nel segno e nel colore, ma le opere di questa artista, ben lungi dal connotarsi come istantanee mutuate da una stanca e inflazionata quotidianità, traggono la propria ispirazione dai luoghi più riposti dell’io. È l’esperienza quindi intesa come sedimentazione del vissuto nella sua totalità, che svolge la funzione di vero e proprio humus, del fattore che nutre e sostanzia la ricerca di questa pittrice. La tela diviene in tal modo la porta da cui inoltrare un’indagine introspettiva, il luogo che riflette la memoria: l’antro in cui è possibile riannodare il filo col proprio passato, tornare a godere di emozioni dimenticate, affrontare e vincere il rimosso, esorcizzandolo per sempre. Pittura come presa di coscienza dunque.

E in questo contesto l’adozione di un linguaggio di matrice espressionista in cui coesistono inequivocabili suggestioni provenienti da culture lontane nel tempo e nello spazio non deve trarre in inganno. Le opere della Maccaro, infatti, pur presentandosi con un ampio repertorio di elementi iconografici che riconducono a civiltà e culture orientali non possono essere inserite nel solco di quel romantico mito dell’evasione, a volte frainteso, che ha coinvolto e continua a coinvolgere numerosi operatori estetici.

I riferimenti all’oriente e a quella che troppo genericamente viene ancora etichettata come “arte negra” sono piuttosto un ulteriore elemento autobiografico, quasi un atto di gratitudine verso quelle culture con cui l’artista è venuta a contatto attraverso studi e letture e che le hanno permesso un’indagine introspettiva altrimenti impossibile.

Suggestive maschere incorporee, forme latenti di corpi che sfumano e si integrano nello spazio circostante, paesaggi misteriosi illuminati da bagliori notturni che fanno risplendere l’oro e il turchese di immaginarie moschee e minareti: sono questi i motivi dei quadri di Renata Maccaro. Immagini realizzate con un istinto pittorico puro che sembra quasi autorizzarla a “tradire” la tecnica tradizionale della pittura ed eludere la mediazione del pennello nella stesura dei pigmenti, spesso distribuiti con le sole mani. Colori e segni assumono in questi lavori un valore che include e trascende quello simbolico. E se è vero che in ambito teosofico il blu e il rosso, dominanti nel lavoro della Maccaro , rappresentano rispettivamente il colore della spiritualità e dell’amore divino, è altrettanto vero che, nelle opere della pittrice, queste tinte possono assumere, con variazioni di tono, valenze diverse. Sarebbe impossibile spiegare altrimenti quella straordinaria coerenza cromatica – peraltro già riconoscibile nelle passate esperienze aniconiche memori della grande lezioni di Rothko. – che lascia sottintendere la fedeltà al luogo da cui queste immagini vengono tratte. Un luogo, l’io della Maccaro, che sembra coincidere con quell’”altrove” che anche Breton indicava come il territorio in cui risiede l’esistenza.

Andrea Romoli Barberini – “Introspective analysis of Renata Maccaro”

When I start to paint, I’m first of all interested in finding a way to show at its best what I realized as subject of the work. Some time ago, Renata Maccaro, with this just apparently obvious consideration, underlined the relationship between pictorial text and meaning of the work. Once again she proposed the idea of a search devoted to the creation of a code that could give a message. Now, without setting limits to what art is, I think it’s possible to say the more a form is able to show its content with great incisiviness, keeping itself out of the dryness of the didactic message, the more it will be readable and accomplish its own task, that is to present and nourish a reflection. Moreover if the represented forms, besides having a meaning, show also themselves as something new and original, then the work will have another merit. In art “the new”, what does not belong to a well-established experience, has indeed always wrongfooted and stimulated the hermeneutic faculties of the observer, showing and hiding itself through new codes. And it’s just in that part of the meaning which is not completely decipherable, in the indefinite and unknown evocation, caused by what in the work is shown and visible, without belonging to the experience of what is already seen; it’s just in this dimension that resides one of the essential element, maybe the most precious that can give the work an endless range of possible meanings, rescuing it from interpretative univocity. Any artist knows, his work is produced by the need to express oneself and the urgency to comunicate something. After these experiences the artist invents his own language that is a subjective form of combination of need to express oneself and something to express; and this is actually his personal relationship between form and content, signifier and signified. It’s the language therefore that shows the real strenght of the artist: just expressive need or feeling are not enough.

As far as Renata Maccaro is concerned, the approach to painting comes from her wish to meditate and know herself. That’s why her pictures are a sort of diary notes, expressed by signs and colours. Yet the works of this artist, far from seeming photos of a tired and overworked everyday life, are inspired by the innermost places of the ego. Therefore it’s the experience, the background, that acts as real humus, as something nourishing and substantiating the search of this painter. The picture becomes, in this way, a door from which we start an introspective analysis; a place reflecting the memory: a den in which we can recover our past or start enjoying again forgotten emotions; a place where we face and overcome repressed experience, exorcizing it for ever. Painting like counsciousness, therefore.

In this context the choise of a language with expressionist root, full of awesomenesses coming from past and distant cultures, does not have to deceive us. Maccaro’s works, even if present a range of iconographical elements reminding us to oriental civilization and culture, can not be actually connected to that romantic myth of escapism, which is sometimes misunderstood, and which involved and continues involving many aesthetical operators. Those references to the East and the Black Art, as it’s defined too generically, are rather another biographical element. It’s almost the expression of her gratitude to those cultures she knew through travels and readings and without which it would have been impossible her introspective analysis.

Suggestive incorporeal masks, hidden forms of bodies shading and integrating in the surrounding space, mysterious landscapes, lit by the nocturnal flashes which let the gold and the turquoise of imaginary mosques and minarets shine: these are actually the motifs we find in Renata Maccaro’s paintings.

The pictures are realized thanks to a pure pictorial instinct which almost allows the painter to “betray” the painting’s traditional technique, eluding the use of the paintbrush and putting always the colours with the hands only. In these works colours and signs include but go also beyond the simbolic value. And if it’s true that in theosophical ambit blue and red, which are the most dominant colours in Maccaro’s works, are the colours of spirituality and divine love respectively, it is also true that in the works of this painter blue and red, with their different tones, can have a new value.

Otherwise it would be impossible to explain that extraordinary chromatic coherence – what’s more we have already found in the past experience mindful of Rotko important lesson – which lets us get the fidelity to the place from which the painter takes the pictures. This place is Maccaro’s ego itself, it’s “elsewhere”, it’s what Breton also indicated as territory of the existence.

Giuseppe Salerno – “Ostensori di Luce”

Quando un tempo l’uomo attraversava le terre alla ricerca del cibo, il solo confine conosciuto era quello segnato dalle acque e dall’orizzonte lontano.

Lotta per la sopravvivenza e rapporto con l’assoluto furono compagne dell’uomo sin tanto ché il progressivo attaccamento alle cose lo rese stanziale. Prigioniere della materia, le società civili presero a conoscere, a difesa dei propri beni, il conflitto e si circondarono di alti muri e profondi fossati. Abbandonata la visione dei tramonti e con gli sguardi non più rivolti al cielo, le menti e i cuori dimenticarono le antiche attenzioni per il trascendente e di ristretti ambiti terreni fecero i loro nuovi territori. Da allora un agire circoscritto condiziona il pensiero e a tutto è assegnato un nome costringendo in parole ciò che non può essere delimitato e relegando alla non-esistenza ciò che sfugge, si ignora o non si intende riconoscere. L’antica madre terra è lottizzata. Tutto è ripartito in opposti e a ciascuna realtà è assegnata la “giusta” collocazione. La contrapposizione ha colonizzato le menti e sempre vi è un confine, uno spartiacque, un crinale che non deve essere mai violato.

Oggi, sotto il peso di grandi catene, alla riscoperta di antiche spiritualità in mondi senza confini, si muovono sensibilità travagliate le quali vagano in cerca di chiavi che aprano lucchetti e scuri che abbattano steccati.

A queste anime appartiene Renata Maccaro la quale, privilegiando per vocazione posizioni scomode, si colloca proprio su quei crinali da cui coglie l’ininterrotta gamma di variazioni che ri-unisce gli opposti.

Nomade, e alla ricerca di una propria identità non disgiunta dall’unicum cui è cosciente di appartenere, insofferente delle artificialità del sociale, questa artista ha da tempo intrapreso un percorso esistenziale, lungo e doloroso, di lenta spoliazione prima e poi di riconquista di sintonie vitali con quelle armonie cosmiche che, indifferenti all’umana presunzione, ad ogni istante confermano la loro determinanza.

Con tutta la forza e l’umiltà di chi, disconoscendo le barriere imposte da una società malata, riconosce la piccolezza della condizione umana, Renata Maccaro celebra con il suo lavoro l’energia del colore, della materia e di forme evocatrici di trascendenze evanescenti, magmatiche. Ostensori di luce, le sue opere sfiorano la raffigurazione di mondi archetipici per confluire nell’energia pura.

Francesca Mazzarelli – “Comunicazione ed evocazione”

Amante e studiosa di linguistica, religione e filosofie orientali, Renata Maccaro ne trasferisce i riferimenti nei suoi lavori elaborando un linguaggio che spazia e attinge a diverse culture in una commistione di suggestioni ed evocazioni. La figurazione che ne risulta è intensa, veicolata da volti e corpi in una tensione che irradia spiritualità e fascino inconsueto.

La libertà di pensiero, il rispetto per un mondo distante e spesso ignorato, la mutuazione di moduli e significati dai fondamentali movimenti novecenteschi del Simbolismo e dell’Espressionismo donano linfa estetica e contenutistica ai lavori di questa artista: cromatismi accuratamente prescelti, scure tonalità impreziosite da piccoli cristalli e da luci improvvise quasi a irradiare le tele da un interno che è interiorità. Uno sguardo, quello di Renata Maccaro che si sofferma, indaga e si fa esegeta poetico di una ricerca incessante e complessa. Come un’onda potente che si spegne sulla battigia. Modulata, intrinsecamente ricca. Di cui bisogna afferrare la linfa per farla propria. Così le sue opere si pongono e si propongono perché dal più lontano si arrivi al più vicino per dare una chiave di lettura dell’Anima del mondo, secondo i moduli analitici e filosofici di Marsilio Ficino C. G. Jung.

Formalmente si è davanti ad opere che non cercano la perfezione, pur trovandola, ma che procedendo oltre sottendono a una ricerca, come in un’isola, di altri elementi: di vita, di armonia, di un tesoro che è la comprensione del sé profondo. Come un uomo che cammina senza incontrare nessuno e alla fine trova se stesso. Una ricerca profonda non nel dettagliare, ma nell’affascinare, non nel piacere ma nel comunicare.

Marica Petti – “La Via del Toro di Renata Maccaro”, Eos Arte, 19.3.2007

E’ terminata il 10 marzo la mostra personale di Renata Maccaro: dipinti dal di ciclo “La via del toro”.

La mostra è stata allestita in una piccola galleria vicino Campo dei Fiori: la particolarità di raccoglimento, intimità e storicità dello spazio è tale da essere perfetto per una mostra che lì potenzia il proprio significato.

Non fatevi ingannare dal titolo, non troverete il toro, perché è solo il simbolo astratto di un percorso di formazione e autoconoscenza che tende alla conciliazione degli opposti. Le figure appaiono quasi nascoste, emergono dai colori che si impongono per una forte materialità che imprime un rilievo in ogni volto e corpo. E’ una sorta di crosta terrestre, come se l’artista volesse in qualche modo riprodurre una mappa o un pecorso da seguire per collegare queste figure passate e attuali con la nostra spiritualità e con tutto lo spazio del fondo: il cielo, la terra, una dimensione che rimanda al mistero dell’indefinito e dell’assoluto.